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Codice: 9788879694308

Fin dal basso Medioevo la dorsale appenninica dell’Italia centrale si configura come il luogo della pluriattività e della mobilità. Per integrare i redditi agricoli e raggiungere la sussistenza, i contadini delle aree montane sono chiamati a svolgere mestieri diversi, che spesso si sovrappongono, mettendo in contatto ambienti differenti con peculiari forme di organizzazione economica e sociale (le aree coltivate, il bosco, il pascolo) e territori spesso molto distanti. Come ampiamente noto, infatti, attraverso la transumanza e l’emigrazione stagionale di braccianti e lavoratori generici, lo spazio montano dell’Italia centrale si lega in maniera indissolubile con le aree pianeggianti delle maremme e dell’Agro romano.

Seguendo i medesimi sentieri dei pastori, contadini poveri o titolari di minuscoli appezzamenti di terra, fin dai primi secoli dell’età moderna, si spostano periodicamente nelle campagne romane per la mietitura del grano, la falciatura dei fieni e la coltivazione delle viti. Nell’ambito del fenomeno della mobilità si colloca un’ampia gamma di mestieri. Nel 1587 il visitatore apostolico Innocenzo Malvasia riferendosi a Visso afferma che «Il resto dei contadini che non attendono al bestiame, parte fuori a careggiare alle lumiere e legna per Roma, parte a lavorare basti, coppelli et altre cose di legname di varie parti d’Italia e fuori». Riferendosi ad alcuni castelli del Vissano, egli ricorda come molti uomini siano attivi nel porto di Ancona come scaricatori. Si tratta di uno scenario che non registra significative trasformazioni nel corso dei secoli. Nei primi anni dell’Ottocento, è lo stesso gonfaloniere di Visso a sottolineare come nel suo territorio «non evvi altra industria che la pastorizia e coltivazione nella campagna, che per l’eccessivi freddi più della volta quasi niente produce e la maggior parte delli abitanti si muove nella Maremma da circa nove mesi».

Lungo i principali sentieri dell’Appennino, dunque, accanto ai migranti stagionali si muovono numerosi lavoratori: mulattieri, facchini, vetturali e venditori ambulanti. Del resto, anche altri mestieri, come quelli del carbonaio e del fornaciaio, o del cardatore di lana, legati a particolari assetti, ambienti o risorse del territorio, molto spesso assumono un carattere itinerante. Sono le difficoltà economiche, ma anche le opportunità dell’Appennino, a spingere gli abitanti delle montagne a svolgere contemporaneamente, oppure in distinte fasi dell’anno, attività diverse, ma sempre collocate in un mondo rurale che obbliga i suoi abitanti ad ingegnarsi e ad arrangiarsi pur di sopravvivere. In realtà, queste differenti forme di lavoro non sempre sono espressione di una povertà endemica, quanto l’esito di un atteggiamento volto a sfruttare le molteplici occasioni insite in un’organizzazione dei processi produttivi che richiede competenze diverse ed elevate capacità di adattamento. In sostanza, è quanto sostiene Pietro Fontana, importante uomo politico umbro ed esperto di agricoltura, che nei primi anni dell’Ottocento, riferendosi alla Valnerina, ma più in generale a tutti gli abitanti delle aree appenniniche, afferma che questi ultimi presentano «all’osservatore filosofo il più sorprendente fenomeno dello spirito umano».

 

Nati in sterilissimo suolo, coll’industria e col mettere a profitto tutte le risorse dell’ingegno procurano a se stessi ed alle loro famiglie onorato sostentamento. Ciascun paese quasi per tacita convenzione si dedica esclusivamente ad una particolare professione, industria, o commercio.

 

In questa sede si cerca, quindi, in riferimento agli ambienti montani e dell’alta collina delle Marche, ma con continui rimandi anche ad altri settori della dorsale appenninica dell’Italia centrale, di approfondire alcuni percorsi di studio su forme di pluriattività e di mobilità contadina, che si collocano tra le dinamiche delle economie rurali integrate dell’età moderna ed assetti protoindustriali di territori interni che non sempre, nella fase di passaggio all’età contemporanea, riescono ad evolvere verso più concreti moduli di sviluppo industriale. In effetti, nei saggi, si supera la classica definizione di protoindustria riferita ai diversi tipi di lavorazione a domicilio, in una visione più ampia indicativa di un periodo storico precedente ai processi di industrializzazione, anche se le attività economiche nelle loro forme tradizionali continuano a convivere accanto alle trasformazioni industriali. I riferimenti sono anche ad un territorio, nello specifico quello dell’Appennino, destinato a stabilire con le sue attività manifatturiere dei fecondi rapporti di interdipendenza.

Nel complesso, i saggi che si propongono in questa parte monografica di «Marca/Marche» disegnano una realtà estremamente composita, nella quale processi produttivi dal forte carattere tradizionale si confrontano con esperienze lavorative più innovative, ma sempre calate in ambienti rurali erroneamente considerati marginali da una storiografia incapace, almeno fino a qualche decennio fa, di rinnovarsi ed offrire letture originali. Si tratta di mestieri che oggi, in un più ampio processo di riscoperta delle campagne e delle aree montane, in parte veicolato dalla crisi dei modelli economici basati sul consumismo e sulle grandi città come spazi di riferimento, si dimostrano capaci di indicare nuovi percorsi di crescita economica, oppure di garantire forme di equilibrio sociale ed ambientale più sostenibili.

Alcune indagini sui mestieri dell’Appennino marchigiano nella lunga età moderna si possono individuare all’interno di ricerche dedicate, più in generale, alle economie, agli assetti sociali e alle risorse dell’intera dorsale montana dell’Italia centrale. Un percorso più originale, anche nella formula narrativa, si deve, invece, ad un lavoro di Renato Mattioni. In un volume uscito nel 1991, pensato per raccontare il Museo della nostra terra di Pieve Torina, egli presenta, infatti, un’avvincente galleria di personaggi dell’Alto maceratese, quasi una serie di piccole biografie, ognuna delle quali rimanda a specifici mestieri: Alcide il pastore, Oreste l’agricoltore, i fratelli Birzò di Accatti di Casavecchia fabbri ferrai, Antonio il calderaio, Teresa la tessitrice, Raniero il carbonaio, Antonio Gazzella e i suoi figli Giovanni e Stefano di Colle San Benedetto di Pievebovigliana boscaioli e bottai, e così via. Più tradizionale, invece, l’impianto di un convegno dedicato al rapporto tra mestieri e paesaggi appenninici, con interventi su spazi geografici e su attività produttive che individuano nelle risorse naturali dei riferimenti insostituibili, tenutosi in quest’ultima località nel settembre del 2005, in occasione della presentazione del locale Museo storico del territorio. Nelle sale espositive del piccolo museo si descrive la cultura materiale di questa porzione di Appennino, la quale si definisce intorno alla tessitura domestica, al lavoro del fornaciaio e alla raccolta di erbe, radici e piante officinali, che caratterizza l’intero massiccio dei monti Sibillini. Nel caso specifico, essa consente, nella seconda metà dell’Ottocento, la nascita di un’impresa simbolo di questo territorio: la distilleria Varnelli. Non a caso, nel saggio introduttivo agli atti del convegno, si sottolinea come mestieri ed attività artigianali dell’Appennino, nel corso dell’età moderna, siano sempre

 

[…] espressione di sistemi economici e territoriali dalla forte configurazione ambientale, le cui lente trasformazioni rimandano a scansioni cronologiche che si collocano su differenti piani temporali. Le attività produttive, infatti, in sintonia con i sistemi agricoli e silvo-pastorali locali, si legano agli elementi fisici e concreti del paesaggio e della natura con i loro tempi millenari, quasi immobili, che consentono all’uomo di predisporre forme di sfruttamento e di definire mestieri caratterizzati, dal punto di vista tecnologico, da un’evoluzione molto lenta, talora impercettibile.

 

In tal senso, i mestieri si configurano «come le modalità attraverso le quali le risorse naturali sono “estratte” dal loro ambiente e valorizzate del punto di vista economico».

I saggi che seguono si collocano lungo questo stesso percorso. In quello dedicato a Mestieri di fuoco: carbonai, fornaciai e “calcinaroli” tra Otto e Novecento, vengono ricostruiti i processi produttivi, totalmente inseriti nelle molteplici forme della pluriattività rurale, che utilizzano come materie prime la terra (argilla), il legname e le pietre e che hanno come spazio montano di riferimento il bosco; in appendice si riporta il testo di un’inchiesta sui carbonai della montagna pesarese realizzata dal Touring Club Italiano nel 1927. Giancarlo Castagnari si sofferma, invece, sul percorso che permette alla città di Fabriano di diventare la culla della carta occidentale; le abilità dei mastri cartai fabrianesi consentono di mettere a punto un processo lavorativo che, a differenza dei precedenti, si svolge all’interno di opifici ben strutturati, secondo meccanismi che rimandano alla protoindustria, anche se nella realtà marchigiana i raccoglitori di stracci, pur essendo inseriti in una rete quasi esclusivamente controllata da accaparratori e mercanti, appartengono a pieno titolo alla pluriattività contadina. Antonio Ciaschi ricostruisce le modalità di organizzazione di un lavoro, quello del “nevarolo”, di fondamentale importanza per la conservazione degli alimenti nel corso dell’età preindustriale; la sua attività, rivolta alla “fabbricazione” del ghiaccio, esalta, ancora una volta, quel rapporto tra economia e natura tipico di ogni attività appenninica. Il breve saggio, pur riferendosi ai monti Lepini, quindi ad un’area esterna alla dorsale appenninica, presenta degli elementi di riflessione che si possono riferire anche a quest’ultima. Renato Mattioni, con la sua prosa coinvolgente, torna a descrivere la transumanza e il lavoro del pastore, figura simbolo della montagna appenninica, vero interprete del profondo legame che per secoli unisce quest’ultima alla Campagna romana. Attraverso memorie e ricordi personali, Agata Turchetti delinea l’immagine del maestro di campagna, il quale, pur essendo estraneo a qualsiasi forma di pluriattività rurale, si configura sempre come punto di riferimento imprescindibile per ogni comunità e come elemento di snodo, insieme al parroco, di ogni attività sociale e lavorativa.

Questa sezione monografica costruita a più voci e con diversi timbri narrativi si conclude con due proposte di rilettura. Si tratta di un saggio Bruno Egidi sulla lavorazione del rame tipica di alcuni centri montani del Piceno e di un ampio lavoro di Augusta Palombarini sulle attività economiche delle donne, quasi sempre impegnate nella tessitura domestica.

 

Caratteristiche del volume

Ft. 170x240 mm, 2019, 336 pp.


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