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Codice: 9788879695008

Quando si studia la storia dell’alimentazione inevitabilmente ci si imbatte su una contraddizione di fondo: da una parte la lenta dinamica dei bisogni primari della grande massa della popolazione, dall’altra la più articolata evoluzione dei consumi alimentari dei pochi che vivono nell’abbondanza. Non è un caso che un libro di Massimo Montanari si intitoli La fame e l’abbondanza: per molti secoli la storia dell’alimentazione è racchiusa tra questi due estremi. È vero che nell’Ottocento, con la diffusione del mais e della patata e grazie ai progressi dell’agricoltura, spariscono le grandi carestie; ma in Italia non migliorano in modo significativo la qualità e il contenuto calorico della dieta della massa della popolazione, sia rurale che urbana.

Per quello che riguarda le Marche, lo confermano gli studi che sono stati dedicati alle consuetudini alimentari delle regioni mezzadrili. Ma basta leggere quanto scrivevano gli estensori dell’Inchiesta agraria Jacini pubblicata nel 1883: «Il contadino marchigiano è assai parco nel mangiare e lo è non solo per necessità, ma anche per abitudine. Tanto che le famiglie coloniche che godono di un certo benessere non si cibano molto più lautamente di quelle che sono strette nel bisogno. Polenta di granoturco, condita con formaggio, olio, lardo, cipolle, ricotta, pomodoro, ortaglie, legumi ecc.; pane di grano misto a granturco, vino soltanto nelle epoche di maggior fatica, qualche volta carne di maiale salata, ecco il cibo ordinario del nostro contadino. La carne di vitella, di agnello, di pollo, s’imbandisce soltanto nelle solennità e per i pranzi nuziali, in cui si danno porzioni così abbondanti, che ciascun invitato porta a casa una parte dei cibi. È molto in uso il vinello (denominato acquaticcio) buon dissetante. Questo grado di parsimonia, che sembrerebbe dover essere l’infimo, nelle contrade meno fertili, e per i contadini più poveri, specialmente nelle annate di penuria, non è nemmeno raggiunto. Purtroppo vi sono famiglie in cui è quasi sconosciuto il pan di grano, ed il vino è la bevanda soltanto delle grandi solennità. Nella confezione del pane di granturco si unisce la farina di fava e nell’Urbinate talvolta anche quella di ghianda». In una realtà di questo tipo, se secondo la FAO le 3.000 calorie sono la soglia che separa la povertà dalla ricchezza, non meraviglia leggere che la popolazione italiana raggiunge in media le tremila calorie solo negli anni Sessanta del Novecento.

Guardare alla storia d’Italia con la lente delle condizioni alimentari è un’operazione di grande interesse. La storia dell’alimentazione, infatti, aiuta a comprendere i mutamenti profondi di una società, in quanto inevitabilmente si intreccia con la storia dell’agricoltura, con le trasformazioni tecnologiche, con l’industrializzazione e con i processi di modernizzazione. Anche solo da questi riferimenti è evidente la complessità di quella che può essere definita la «questione alimentare». 

Già in età moderna per un numero crescente di famiglie lentamente si riducono le spese in conto alimentazione sul totale delle spese familiari; in base alla cosiddetta “legge di Engel”, il peso delle spese alimentari diminuisce con l’aumentare dei redditi; quindi, «più il Paese è ricco e minore è la percentuale di spesa rappresentata dall’alimentazione». Agli inizi del Novecento, mentre nei Paesi più industrializzati tale percentuale era scesa ben al di sotto del 50 per cento, in Italia si manteneva ancora sopra il 60 per cento.

Nei decenni centrali del Novecento, quando anche in Italia la modernizzazione investe il mondo dell’alimentazione, progressivamente si impongono vari fenomeni di grande rilievo: innanzitutto si riduce l’autoconsumo e tendono a diminuire le differenze fra città e campagna; poi, ampliandosi i mercati, si ridimensionano i vincoli territoriali e si supera anche la dipendenza dalle stagioni. Si modificano inoltre i consumi alimentari (basti pensare al declino del pane o all’esplodere di pasta e pizza) e compaiono nuovi cibi che, sul modello degli UFO, sono stati acutamente definiti «oggetti alimentari non identificati», in quanto hanno perduto ogni traccia della loro origine, dai formaggi fusi agli hamburger. 

In un’ottica di storia sociale con la modernizzazione si diffondono nuovi stereotipi alimentari che non collegano più la salute all’aspetto rubicondo ma alla magrezza; si affermano poi nuovi comportamenti e, con la rottura del rapporto tra casa e cibo, si arriva a mettere fine anche al rito del «mangiare insieme». Alla dissoluzione delle vecchie consuetudini alimentari locali hanno fatto seguito atteggiamenti che oscillano tra la nostalgia e l’invenzione di tradizioni inesistenti. Ma nel frattempo, con l’esaltazione della «dieta mediterranea», la cultura alimentare italiana e la cucina italiana si sono imposte a livello internazionale e oggi ci qualificano come eccellenza nel mondo intero. 

 

Come si comprende da queste brevi note introduttive, sarebbe illusorio puntare in questo fascicolo a una ricostruzione organica. La storia dell’alimentazione (e i problemi ad essa connessi) è così complessa che non si è riusciti a indagarla pienamente neppure in un intero annale della Storia d’Italia Einaudi di oltre mille pagine. È impensabile, quindi, che ci si riesca nelle appena cento pagine di questa sezione monografica di «Marca/Marche». Ma proprio perché il tema è vasto e complesso, qui si punterà ad affrontare gli aspetti ritenuti più rilevanti con l’obiettivo di suscitare interesse per alcune questioni ancora oggi rimaste aperte. Nelle Marche alla storia dell’alimentazione è stata dedicata una giornata di studi tenutasi ad Amandola nel maggio 1983 i cui atti sono poi stati pubblicati nel 1984 nel numero 11-12 della rivista «Proposte e ricerche». A quaranta anni da quell’incontro, «Marca/Marche» intende contribuire alla ripresa di un tema che in regione non appare ancora approfondito in modo adeguato. I lavori raccolti in questo fascicolo non sono omogenei, ma offrono innumerevoli stimoli, nonché indicazioni e materiali per successivi approfondimenti.

 

Caratteristiche del volume:

Ft. 170x240 mm, 2022, 344 pp.


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