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Codice: 9788879693363

I nove testi che costituiscono questo libro sono datati fra il 1986 e il 1989. Sono una parte dei molti che Paolo Concetti ha scritto anche prima e dopo questi anni; lui stesso, prima della sua scomparsa nel 2009, aveva concordato con l’editore la scelta e l’ordine in cui disporli per la pubblicazione, un ordine che ha una sua ragione, perché le storie narrate si susseguono cronologicamente dal 550 a. C. al 1989 e sono legate fra di loro da accordi nascosti che tocca al lettore afferrare. Ugualmente suoi sono il titolo e il sottotitolo. L’uno trova la sua spiegazione nel racconto che compare per secondo, Il sogno di Ferecide, e nel capitolo VIII intitolato Il peplo di Ctonia. L’altro definisce lo scenario nel quale il lettore sta per entrare, e lo fa definendo una costellazione di temi che compaiono senza essere separati da una virgola. Il motivo di ciò, suppongo, è che non si vuole parlare secondo prospettive prese separatamente (la religione, l’arte, la creazione di storie, la filosofia), ma suggerire che nel mondo culturale dei greci viene ammesso solo chi ne sa percepire l’unità profonda. Si può forse aggiungere che in qualche misura questo vale per qualsiasi mondo culturale; non occorre però andare molto lontano per trovare il passato o il presente di religioni che hanno considerato la bellezza come radice del peccato piuttosto che come manifestazione della divinità o che, d’altro canto, hanno collocato in campi opposti la divinità e il logos.

Anche se i primi sei dei nove capitoli si presentano come racconti (gli altri tre sono una meditazione in poesia e in prosa sulla religione greca, certo qui un po’ idealizzata, un diario di viaggio e un Breve corso di storia della filosofia), ho parlato in principio di “testi”, perché non saprei bene a quale genere letterario attribuirli. Scarse sono le affinità con i tre che vengono subito in mente. Il romanzo storico mette in scena una storia inventata cercando credibilità sullo sfondo della storia reale, ed eventualmente cerca di illuminare la storia reale attraverso storie verosimili; ma i racconti di Paolo Concetti non scorrono attraverso un intreccio drammatico e movimentato, ma al contrario sono lenti e misurati e si svolgono per lo più in spazi sospesi, fatti di persone che conversano, narrano e ricordano.

Attivi nella conversazione sono d’altra parte filosofi quasi tutti realmente esistiti, con una speciale predilezione per quelli cancellati dal tempo e dei quali non sono rimasti neppure dei frammenti ma solo il nome e poche notizie. Fossero conquistatori o altri celebri “personaggi storici”, ci troveremmo nel genere della storia romanzata (e nel sottogenere della biografia romanzata), che al pari di certi film storici pretende farci assistere a momenti della loro vita vissuta pubblica e privata e farci ascoltare («e allora disse… e allora rispose») parole che non risultano essere mai state pronunciate. Tutto ciò è di poco aiuto, e di molto danno, alla divulgazione storiografica.

Non è questa, comunque, la strada che Concetti intende battere. Tenendo conto che l’Illuminismo veniva solo dopo il mondo dei greci fra le sue passioni intellettuali, potremmo leggere le sue pagine come dei contes philosophiques. In effetti Concetti si è misurato altre volte con il genere praticato da Montesquieu, Voltaire e Diderot, ma non nel caso presente. Il conte philosophique ricorre alle risorse del paradosso e dell’ironia per criticare la realtà presente e metterne a nudo le assurdità e le contraddizioni. Concetti si allontana dal presente e vuole comunicare solo con i suoi sapienti amici, filosofi e poeti, ricollocati nel Mondo che abbiamo perduto (titolo del testo numero sette del libro); anche il confronto poco amichevole con il cristianesimo è condotto in massima parte assumendo il punto di vista sconfortato degli elleni emarginati e poi perseguitati del IV e V secolo d. C. (nel racconto su Ipazia di Maronea).

Mi sentirei piuttosto di attribuire le pagine che sto presentando a un quarto genere, che può essere definito della “finzione erudita”. Il tutto ha in parte l’aspetto del delizioso gioco dell’intelligenza, che però non si esaurisce in se stesso; alla fine c’è sempre lo sguardo sulla saggezza che, nelle parole di Eraclito, «non dice né sì né no ma accenna» (nel Breve corso di storia della filosofia lo spirito del frammento presocratico è preferito alle verità di Platone) e l’apologia della libertà e della tolleranza. È un genere che ha ovviamente dei precedenti e mi dispiace di non essere abbastanza competente da non saper indicare, oltre alla tradizione dei dialoghi filosofici durata ben oltre il Platone ancora socratico, niente altro che due opere recenti, Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso (1988) e Nei pleniluni sereni. Autobiografia immaginaria di Tito Lucrezio Caro di Luca Canali (1998).

Verifichiamo come figurano e operano nel libro che stiamo per leggere i canoni della finzione erudita: il racconto e l’intreccio sono solo dei pretesti o meglio delle occasioni per riportare e commentare testi realmente scritti dai personaggi che figurano come interlocutori e anche per aggiungerne di inventati ma scritti secondo l’ispirazione originaria. Nel primo racconto, i papiri appartenuti verso il 400 d.C. a Ipazia e che riportano uno scritto di Ipparchia di Maronea datato a otto secoli prima si fanno riconoscere come una variante della finzione ben codificata del “ritrovamento”. Ma Cleobulina di Rodi che gareggia con i sette sapienti e la stessa Ipparchia che riferisce di questa gara, pur sembrando personaggi inventati, sono invece reali.

Le vicende degli Ultimi giorni di Zenone di Elea, il filosofo del paradosso di Achille e la tartaruga, fatto uccidere nel 430 a.C. dal tiranno Nearco, sono l’integrazione immaginaria delle poche righe scritte su ciò da Diogene Laerzio (ma non quelle citate in apertura, che sono inventate). Attraverso i ricordi di Zenone percorriamo la storia della Grecia dal 545 al 430 a.C.. L’inizio di questa storia (la caduta delle colonie elleniche dell’Asia Minore sotto il dominio persiano) gli era stata raccontata nel 478 dal quasi novantenne Senofane di Colofone. L’ultimo evento Zenone non può vederlo con i suoi occhi: spinti dalla sua morte eroica, i cittadini di Elea rovesciano il tiranno e riconquistano la libertà. Fra i racconti di Zenone vi è quello sul viaggio compiuto ad Atene nel 446 insieme a Parmenide, quando incontrò Sofocle, che stava scrivendo Antigone e che gli lesse il passo che comincia con «L’esistere del mondo è uno stupore infinito, ma nulla più dell’uomo è stupendo». Nella stessa occasione (qui la base è il dialogo di Platone Parmenide) Parmenide e Zenone possono incontrare il giovane Socrate e conversare con lui sull’essere e il non essere, sulla realtà e sull’apparenza.

Lo stile della finzione erudita si presta bene alla sottile tessitura fra i Tre frammenti di vita di Eraclito e i frammenti della sua opera che ci sono pervenuti. Li troviamo citati secondo la numerazione convenzionale adottata dagli studiosi tedeschi Hermann Diels e Walther Kranz: a loro rimanda la sigla DK. Ma, attenzione, i frammenti DK sono solo 126. I numeri 140-143 sono degli apocrifi, segnalati dalla diversa sigla PK (= Paolo Koncetti).

Il racconto più lungo, vicino alla dimensione del romanzo breve, è quello dedicato alla matematica e filosofa alessandrina Ipazia di Maronea (racconto che si ricongiunge al primo, visto che è Ipazia a tramandarci il manoscritto di Ipparchia). Della sua vita (370-415) e della sua morte (linciata da una folla di fanatici cristiani eccitati dal vescovo Cirillo) siamo informati dai due testi (un’enciclopedia storica bizantina del X secolo e un cronista cristiano del V secolo) posti in apertura. Il racconto non vuole però sviluppare in forma più o meno romanzata o documentata la vita di Ipazia, cosa che è stata fatta più volte in passato e assai di frequente negli ultimi venticinque anni (notevole è la biografia di Silvia Ronchey; esiste anche un film del 2009 che non ho visto e che Paolo non ha fatto in tempo a vedere). Assume invece la forma di una Lettera non spedita ad Asclepigenia di Atene, scritta nel 415 alla vigilia del suo assassinio, finzione letteraria e momento di riflessione sulla fine di un mondo. La filosofa Asclepigenia è comunque un personaggio reale, come pure è reale il poeta Pallada Metéoros che nel testo posto in appendice commenta, trent’anni dopo, il delitto: siamo nel 445 e nel frattempo Cirillo è morto e gli Unni guidati da Attila devastano l’impero d’Oriente. Ipazia racconta di un viaggio compiuto nel 384 in Grecia, all’oracolo di Zeus a Dodona (Viaggio a Dodona è anche il titolo del diario di viaggio che figura come ottavo capitolo del libro). A quella data il mondo impropriamente e genericamente detto “pagano” è già condannato all’estinzione. Il tentativo dell’imperatore Giuliano di far convivere la religione classica con il cristianesimo era fallito, l’appello alla tolleranza lanciato nel 384 dal senatore Aurelio Simmaco, riportato nella Lettera non spedita nei suoi passaggi essenziali, si era scontrato con il rigido rifiuto del vescovo di Milano Ambrogio. L’imperatore Teodosio avrebbe posto fine, nel 391, alla libertà religiosa, nuovamente rivendicata in Occidente solo dopo dodici o tredici secoli e faticosamente recuperata dopo altri due.

Il mondo della tolleranza e della ironica incapacità di fanatismo è quello, non importa se immaginario o reale, che Paolo rimpiangeva come perduto, vedendovi il meglio della mitologia politeista della Grecia classica (così diversa dell’idolatria propria a tutte le epoche). Lo faceva con serena nostalgia. In questo spirito, il lettore lo ringrazierà per averlo reso partecipe del tempo rievocato.

Scipione Guarracino

 

Caratteristiche del volume:

Ft. 170x240 mm, 2014, 312 pp.


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